"Non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa, neanche a me". Per i più esperti di pellicole cinematografiche un’associazione diretta a uno dei film più rappresentativi del nuovo millennio. Per gli altri il dialogo più celebre di Chris Gardner, in arte Will Smith, nel lungometraggio “La ricerca della felicità”. Si rivolge così al piccolo Cristopher in un palcoscenico non del tutto casuale: un playground californiano. Il pallone da basket è la sua unica certezza in una quotidianità saltuaria dove il domani è imprevedibile. Prima di lui altri hanno convissuto in una realtà problematica, instabile, aggrappandosi con forza alle poche cose di cui disponevano.A molti una semplice palla a spicchi ha cambiato per sempre la vita.
Ma ripartiamo da qui. Gli anni Sessanta si rivelano come il “Big Bang” dell’homo sportivo africanus, liberatosi finalmente delle catene servili dell’epopea coloniale. Il mito di Abebe Bikila comincia a farsi strada, la sua corsa infinita è la metafora della libertà, unica opportunità di inseguire il sogno del successo. Sassolini, ramoscelli, schegge di vetro, il dolore nei suoi piedi scalzi è imparagonabile all’orgoglio immenso di rappresentare un intero popolo.
Qualche migliaio di chilometri più a ovest, Sudan e Nigeria producono due pepite dalla grande attrattiva nella “Corsa all’oro” verso il sogno americano: Manute Bol e Hakeem Olajuwon. La tradizione dei grandi fondisti africani li investe, come sabbia nel deserto, il loro patrimonio biologico però dice altro.
Il talento di Hakeem non è invece mai messo in discussione. Grande elevazione e superbo controllo del corpo, un sogno che resta tale anche quando diventa a tutti gli effetti realtà. “The Dream”, come un marchio registrato, un brand sopra cui costruire la carriera. Lo “shake” in post-basso, un movimento immarcabile. Figlio del Texas, di quella Houston che lo accoglierà e lo consacrerà nell’Olimpo della pallacanestro, ma che resterà sempre una città adottiva, il cuore a Lagos perché è impossibile andarsene per sempre.
Per i giocatori africani il legame con la terra natia è fondamentalmente indissolubile, al punto da diventarne quasi un simbolo identificativo. Dikembe Mutombo ha basato la sua performance oltreoceano personalizzando il concetto di “casa”, l’area pitturata come luogo inviolabile. “Not in my house”, manifesto futurista di un movimento, quello della stoppata, capeggiato insieme ai signori sopra citati, il cui slogan, un dito che si agita in segno di scherno, è propaganda nuda e cruda.
Un’eredità importante da conservare, ma per un popolo abituato a osservare religiosamente le proprie tradizioni non c’è niente di più semplice. Dal “principe” Luc Mbah a Moutè, voce fuori dal coro in un parterre di grandi eletti, dati i “miseri” 203 centimetri, fino a Luol Deng, numero 9 per eccellenza, ultimo di una lunga stirpe di cestisti in famiglia. Un occhio alla madrepatria, grazie alle omonime Fondazioni a sostegno dei connazionali, e uno ai fornelli, almeno per Serge Ibaka, ultimamente piuttosto attivo anche “off the court” con il suo show-cooking “How hungry are you?”, dedicato alla preparazione di alcuni piatti tipici del “continente nero” in compagnia di alcune star del mondo cestistico e non. Storie che si sono trasformate in leggende, partendo da una manciata di speranze.
Figli di una terra che li ha accuditi, allevati, prima che imparassero a volare alla ricerca dei propri sogni.
